L’importante è partecipare

Pubblicato sulla rivista “Enrico Medi”

_________________________________________________________________________________

di Saretta Marotta -Segretaria nazionale MSAC
e Andrea Iurato – Segretario nazionale FUCI

A pensare agli ingredienti della formazione di un giovane viene in mente la fila di ampolline sulla mensola di Gargamella: letture, incontri, la scelta del gruppo da frequentare, la formazione religiosa, tutto in boccettine ciascuna con la propria etichetta sopra, da dosare con cura onde evitare che qualche sapore prevalga sugli altri, pena l’avere il giovane topo da biblioteca, o quello iper-relazionale, quello da sagrestia e quello secchione. La formazione dei giovani in realtà “campa” invece prevalentemente di luoghi. Sono i luoghi fisici, concreti, quelli che informano di sé la vita di ciascuno. Quei luoghi così radicalmente integrati nella nostra vita che, pur essendo sempre sotto il nostro naso, raramente ci accorgiamo di quanto ci trasformino. La nostra casa, ovvero la nostra famiglia, il lavoro che svolgiamo, l’attività che non solo occupa gran parte della nostra giornata e di tutti i nostri pensieri, ma costituisce praticamente la nostra identità. Essere studenti allora, dall’adolescenza al quarto di secolo, non significa semplicemente passare il tempo sui libri, ma abitare un luogo, una condizione. È una questione di identità, di vocazione, di consapevolezza del compito assegnato alla nostra vita per quel frammento di tempo, per quegli anni. È la scommessa che l’Azione Cattolica sogna per tutti i propri studenti, armandoli di una consapevolezza che li spinga a guardare il loro tempo e il loro “luogo” con occhi sapienziali, che sappiano discernere la differenza cristiana da portare tra i banchi di scuola. La sfida è lanciata già agli studenti delle scuole superiori, perché a 15, 16, 17 anni si può essere capaci di responsabilità e partecipazione. Responsabilità per i mille volti che a scuola incontriamo: i banchi sono laboratorio di relazione, tra compagni, coi professori, sono il ring su cui ci giochiamo i primi amori e pure gli scontri più duri; sono anche l’occasione per lasciare sul campo i compagni dei banchi dietro, quelli che abbiamo fatto “fuori” dalla nostra vita con i fendenti dell’indifferenza, del disinteresse, del “non è compito mio”, rimettendoci in bocca le parole di Caino “sono forse io custode di mio fratello?”. La “convivenza civile” di cui tanto ci parlano i programmi di educazione civica è allora incarnata in qualcosa di molto concreto, inesorabilmente tangibile e che interpella tutti. Come tutti ci coinvolge quella domanda di partecipazione di cui tante volte proprio sui banchi troviamo le tracce, magari graffiate sulla superficie con uniposca colorati a lasciare impronte di nomi, date, “segni” del nostro passaggio, che è poi la stessa voglia partecipativa che magari non trova risposta nei normali canali della rudimentale democrazia scolastica con cui da quindicenni ci confrontiamo: le elezioni dei rappresentanti, le assemblee, i consigli, ma anche tutta quella babele di leggi e riforme che ci consentirebbero pure di far nostre le mura dell’istituto, magari proponendo una iniziativa al pomeriggio, ma di cui non ci arriva notizia né informazione. E allora importante è partecipare, non solo come palestra di cittadinanza, ma come esercizio di responsabilità, abitudine a lasciare “un segno” nei luoghi e nelle persone che incontriamo, e a riceverlo da quei luoghi e da quelle persone a nostra volta, possibilmente non tatuato sulle braccia o sugli schienali delle seggiole.

E poi per molti arriva l’Università! Ed è tutto un altro studio, tutta un’altra vita. Niente più classe, niente compiti, interrogazioni, assenze da giustificare! Anche se spesso non si parte anche per un’altra città dove andare a vivere da soli, respiriamo comunque a pieni polmoni aria di libertà. Basta poco e una mattina, mentre corriamo a prendere il bus che ci porta in aula, insieme alla borsa piena di libri scopriamo che abbiamo in mano la nostra vita. Siamo studenti universitari. Ora decidiamo noi quando andare a lezione, quando dare gli esami, se alzarci o meno una mattina che siamo stanchi, se seguire le lezioni di un prof che ci sta antipatico. Che senso ha parlare adesso di partecipazione? Adesso la partecipazione è garantita, siamo noi i protagonisti! Protagonisti effimeri di un percorso di studi da progettare con la calcolatrice in mano e il calendario sempre davanti agli occhi, fra somme di crediti, medie e appelli d’esame. Protagonisti alle lezioni dove siamo liberi di assentarci, ma a rischio di essere trattati peggio all’esame, nelle segreterie dove attendiamo per ore il nostro turno per chiudere le procedure di iscrizione e nel frattempo appuntiamo su un foglio la lista della spesa, oppressi dal pensiero, tra l’altro, che prima o poi la nostra camera la dovremo pur pulire! Ci scopriamo d’un tratto utenti passivi, consumatori di libri, inseguitori di crediti, caffeinomani incalliti. Possiamo a questo punto scegliere di tapparci il naso e buttarci nella mischia a spintoni inseguendo l’ultimo esame e l’agognato premio a punti, sognando intanto la prossima tappa, perché in questa non abbiamo ancora trovato la nostra libertà. Il nostro studio sarà allora solo una corsa a ostacoli verso la laurea, i nostri compagni saranno solo nemici da superare. Oppure l’alternativa è provare a riscoprire in tutto questo tran tran la nostra vita: nel treno al lunedì mattina, nell’esame da prenotare, nel caffè la notte sui libri, nella piena e indescrivibile soddisfazione di un altro rigo del libretto che si riempie. Scopriamo così che, se ad esempio studiamo giurisprudenza, i colleghi di medicina ci guarderanno come alieni quando gli parliamo della responsabilità per colpa medica, mentre il nostro coinquilino aspirante ingegnere ha progettato un piano di ripartizione scientifico dei ripiani del frigorifero. Lo studio ci sta cambiando, ci trasforma e ci plasma senza che noi possiamo accorgercene. Capiamo che le giornate sui libri, le ore in aula, gli esami superati e non superati non scivolano via su di noi senza lasciare traccia. In fondo la nostra vita è lì dove trascorre il nostro tempo. Non è un futuro con la laurea in mano, è un presente da studente. Se la nostra vita è illuminata dalla fede, lo sarà anche il nostro studio, perché è in fondo la nostra vocazione, la chiamata a cui ogni mattina, fra uno sbadiglio e un sorriso, una sconfitta e una vittoria, diciamo di sì! E’ possibile per noi essere studenti cristiani che si lasciano guidare nelle fatiche dello studio dalla propria fede e lasciano che essa illumini e chiarisca il senso di questo sforzo. Allora se lo studio è la nostra vita, l’università o la scuola sono un po’ “la nostra casa”. Prenderci cura della nostra casa è il primo diritto e condividerne la cura con i compagni di studio è il nostro primo dovere di cui ci verrà chiesto il conto. La collaborazione, la solidarietà, il cammino comune e non la gara competitiva saranno le sfide del nostro essere studenti cristiani. Per far questo occorre mettersi in gioco! Facciamo un bel respiro e tuffiamoci tra i chiostri e le aule, portiamo qui tra i nostri compagni i sogni che vogliamo costruire, la speranza che vogliamo coltivare, la fede che vogliamo annunciare. Da studenti siamo oggi chiamati alla santità e ce la giochiamo proprio qui, tra le mura delle nostre università e delle nostre scuole. I beati Piergiorgio Frassati e Alberto Marvelli, studenti santi, ce lo insegnano. Coltiviamo una santità studentesca! Yeah, we can!