Riportiamo l’intervista realizzata da Zai.Net (rivista studentesca) sul tema della scuola a tre associazioni studentesche: Unione degli studenti (UdS), Azione Studentesca (AS) e Movimento Studenti di Azione Cattolica (MSAC che però qui di seguito viene riportato con la siglia Ac); Il Movimento Studenti di AC è stato rappresentato da Agatino Lanzafame, delegato al Ministero della Pubblica Istruzione per il MSAC.
Secondo appuntamento redazionale con il mondo
della politica giovanile. Questa volta l’argomento è
stato il pane quotidiano di qualsiasi giovane rampante
che si rispetti: la scuola. A confrontarsi davanti al
nostro coordinatore redazionale Matteo Marchetti sono
stati gli esponenti dell’Unione degli Studenti (organizzazione
studentesca d’ispirazione sindacale e di sinistra),
dell’Azione Cattolica (giunto apposta da Catania! Grazie
ancora!) e di Azione Studentesca.
Nome, età, qualifica.
Ac: Agatino Lanzafame, 23 anni, delegato al Ministero
dell’Istruzione per l’Azione Cattolica.
As: Giorgio Rezk, 19 anni, viceresponsabile romano di
Azione Studentesca.
Uds: Tito Russo, 22 anni, coordinatore nazionale
dell’Unione degli Studenti.
All’inaugurazione dell’ultimo anno scolastico, il Presidente
della Repubblica Napolitano ha detto: la scuola pubblica
sia migliore ma non d’élite. Siete d’accordo?
Uds: La necessità di miglioramenti è evidente. Per quanto
riguarda le élite, il nostro sistema scolastico presenta
da sempre canoni elitari, sia per l’accesso – tassazione
crescente, costo del materiale didattico, mancanza di
ammortizzatori sociali per chi frequenta la scuola dell’obbligo
– sia per metodologie di apprendimento: abbiamo
un gran numero di studenti, ma i contenuti che vengono
insegnati diminuiscono di qualità.
Ac: Come al solito il Capo dello Stato ci richiama alle
nostre radici costituzionali, a una scuola di qualità accessibile
a tutti. Ovviamente però non è solo un discorso che
riguarda gli studenti: per una scuola di qualità occorrono
strutture adeguate – perché una scuola di qualità è una
scuola sicura – e la possibilità per tutti di accedere a tutti
i canali di istruzione. Per entrambe queste questioni è
necessario un intervento della politica.
As: Anch’io condivido le parole del Presidente della
Repubblica: la scuola va migliorata, deve vedere riaffermata
la meritocrazia e la responsabilità degli studenti,
due questioni minate dal Sessantotto insieme al prestigio
stesso dell’istituzione scolastica. Togliamoci poi dalla
testa che la scuola debba formare solo la “classe dirigente”:
un Paese non è fatto unicamente di avvocati e dottori,
ma anche di operai, di artigiani. Non condivido le
vostre riflessioni sul presunto elitarismo della scuola italiana:
siamo un Paese dove il diritto allo studio è fortemente
tutelato dalla legge; ci sono poi dei fattori che lo
limitano, penso per esempio al costo dei libri.
Del costo dei libri si lamentano un po’ tutti. Escludendo
dal discorso le situazioni di vero disagio economico (che
va combattuto duramente), non si può non notare una
deriva consumistica. Ha senso lamentarsi del costo di un
dizionario – che va comprato una volta in cinque anni – e
munire il pargolo di un cellulare da centinaia di euro?
Ac: No, ma riflette un modo di pensare molto diffuso nel
Paese: se la politica parla sempre della scuola come di un
capitolo di spesa, è logico che la cittadinanza farà altrettanto.
Bisogna rimettere al centro del dibattito un’idea
dell’istruzione che sia una fase imprescindibile della formazione
del cittadino.
As: Non bisogna permettere la vergognosa speculazione
che ogni anno vediamo andare in onda: i tetti ministeriali
parlano di un massimo, per il primo anno di liceo classico,
di 370 euro, ma da un’indagine che abbiamo condotto
emergono situazioni che sforano abbondantemente
i 500. Le case editrici prosperano sulla pelle degli studenti.
Detto questo, non mi sembra uno scandalo se un
ragazzo desidera più una scarpa firmata che non un libro
di testo…
Uds: Farei però un discorso, più che di costo dei libri, di
costo del materiale didattico: un dizionario di greco per il
classico, che durerà cinque anni, costerà dai cinquanta ai
cento euro; un flacone da 60 ml di solvente per i laboratori
di oreficeria di un istituto tecnico costa 32 euro l’uno,
e se ne consuma almeno uno al mese: sono quasi trecento
euro ogni anno che si sommano al costo già alto
dei libri. Difficile non vedere poi una convergenza di inte-
ressi fra case editrici e Stato, che incassa l’Iva. Perché i
libri scolastici hanno un carico fiscale del 20%, come i
beni di lusso?
Se doveste associare una parola al Ministro Gelmini?
As: Coraggiosa.
Uds: Dimissioni.
Ac: … Mmh, passo [dopo quasi un’ora di discorso, Agatino
partorirà: «Ministro dell’Istruzione»].
Il peggior ministro dell’Istruzione degli ultimi 15 anni?
As: Berlinguer.
Uds: Moratti.
Ac: Tutti, perché nessuno ha partorito una riforma della
scuola condivisa e organica.
Quale aspetto della scuola italiana avrebbe più urgente
bisogno di un intervento?
As: Bisogna dare a chi si diploma un’idea di futuro.
Uds: Sarei un po’ più concreto: l’edilizia scolastica, perché
è impossibile una scuola di qualità se ti cade a pezzi
addosso.
Ac: Tre punti: formazione dei docenti, riforma dei saperi –
rimettere mano quindi ai contenuti e non più solo alla
scatola – e diritto allo studio.
I vari tentativi di riforma hanno avuto in comune un obiettivo:
la comunicazione con il mondo del lavoro. Ha senso
inseguire un mondo del lavoro in vorticoso cambiamento
– con il risultato di essere sempre in ritardo?
Uds: Nell’apertura al mondo del lavoro la scuola ha tre
impedimenti fondamentali. Innanzitutto i bassi investimenti
nella ricerca, vero anello di congiunzione fra formazione
e imprese. Seconda questione sono i metodi di
insegnamento, fermi, sia nei tecnici che nei licei, alla
lezione frontale. Infine, uno dei problemi è il mondo del
lavoro stesso, il precariato. L’alternanza scuola-lavoro
sarebbe un’occasione molto seria, ma senza regole è
sfruttamento; oggi non viene riconosciuta nemmeno la
copertura assicurativa in caso di infortunio. Sono però
sicuro che nessun governo, neanche di sinistra, colmerà
mai questo vuoto, perché rischierebbe di andare contro
Confindustria.
As: Come ho già detto, uno dei problemi strutturali della
scuola è la scarsa prospettiva. Dobbiamo distinguere però
l’istruzione liceale e quella tecnico-professionale: nel
primo caso, lo studente in genere si iscrive all’università;
nel secondo, invece, ci si aspetterebbe
una maggiore formazione
professionale. Sappiamo che purtroppo
non sempre è così; andrebbero
aumentate le ore di stage, in
modo da aprire con leggero anticipo
un percorso lavorativo soddisfacente.
Sono d’accordo con Tito sulla
necessità di una regolamentazione
più stringente degli stage.
Ac: Secondo me bisogna tornare
ancora una volta sul ruolo della
scuola, che non serve a produrre
teste “ben piene”, ma “ben fatte”:
lo scopo della scuola è innanzitutto
formare lo studente come persona
e come cittadino. Il lavoro è solo
una conseguenza di tutto questo.
L’investimento da fare, secondo me,
è nei percorsi di orientamento.
A partire dalla contestazione degli
anni Settanta, l’autorevolezza
della scuola è venuta meno, introducendo
un rapporto più paritario
fra docenti e studenti. Di recente
sembra invece tornare di moda la severità: c’è un “giusto
mezzo”?
Uds: Rispetto alla prospettiva del Sessantotto è stato
fatto un passo indietro: “produrre conoscenza” significa
rielaborare in proprio i contenuti trasmessi dal docente;
dunque, studente e professore devono essere pari. Va
cambiato il concetto stesso di valutazione, non si può
esultare per l’aumento di bocciature come ha fatto il ministro
quest’estate. Il rendimento dello studente non può
essere appiattito in decimali. In Europa è già così; tra l’altro,
a fine anno lo studente può valutare le metodologie
d’insegnamento di docenti sempre impegnati in corsi
d’aggiornamento. La severità fine a se stessa non serve a
nulla, crea solo una scuola esclusiva.
Ac: Ricordiamo poi che nello Statuto degli studenti è scritto
che “la scuola è una comunità educante”, a indicare
una corresponsabilità fra tutte le figure attive nell’istituto.
La partecipazione e il dialogo con il docente sono tanto
importanti quanto i contenuti della lezione stessa. Non
bisogna fermarsi davanti alla passività: il bravo docente è
un docente autorevole, non uno autoritario. Chi sa stimolare
la partecipazione, l’amore per la materia, è un buon
docente. Non dobbiamo nasconderci che è in atto una
crisi dei modelli educativi; le associazioni studentesche
possono giocare un ruolo decisivo nel ricordare ai
ragazzi sia i loro diritti sia, però, i loro doveri. In quanto
alla bocciatura, è un fallimento educativo della scuola,
non può essere festeggiata.
As: Le varie iniziative di protesta, a partire dal
Sessantotto per arrivare recentemente all’Onda, hanno
avuto un approccio ideologico, un intento neanche troppo
nascosto di dividere la società in classi. Hanno svilito
l’apporto della persona all’istituzione scolastica e, per
contro, causato nella stessa classe docente una contrapposizione
con gli alunni. Una classe docente anch’essa in
buona parte ideologizzata, ex sessantottina, che al posto
della scuola che ha abbattuto non ha costruito nulla.
A proposito della classe docente e della sua età: non si
può ignorare che si sta andando verso una specie di
“giorno del giudizio”, visto che buona parte dei professori
di ruolo è prossimo alla pensione.
Ac: Questa è una delle questioni più urgenti cui rispondere:
le università e le graduatorie dei provveditorati sono
piene di giovani insegnanti appassionati
e preparatissimi, per i quali
la possibilità di ottenere una cattedra
a tempo pieno è lontanissima,
mentre la scuola avrebbe bisogno
di queste energie. Bisogna cambiare
la logica del reclutamento: non è
solo una questione di età, ma di
formazione continua. Si badi bene,
“formazione”, non “aggiornamento”.
Al di là della competenza, ai
docenti si richiede la capacità di trasmettere
il loro sapere.
Uds: In realtà lo spazio per i precari
ci sarebbe già: pensiamo ai corsi
di recupero, che oggi sono tenuti
dai docenti titolari dell’istituto, per
questo retribuiti. Pensiamo a tutti i
canali di sperpero che affliggono la
scuola italiana, prima di calare la
mannaia su 67000 persone in tre
anni: queste sarebbero tutte energie
perse, sprecate. Il gran numero
di insegnanti disoccupati o precari
potrebbe essere assorbito dal piano
di prepensionamento del ministero; purtroppo, lo Stato
preferisce le supplenze brevi o annuali, che lo fanno
risparmiare. O almeno, così sembra: se è vero che un
supplente annuale ad agosto non viene pagato, è anche
vero che la macchina burocratica che gestisce questo
valzer ha dei costi. Siamo sicuri che siano inferiori a
quelli di un’assunzione?
As: Secondo me, invece, la parola d’ordine da tenere sempre
a mente è “meritocrazia”. È triste che persone che
hanno studiato una vita si trovino di fronte a una porta
chiusa, ma non si può pensare che la scuola funga da
ammortizzatore sociale. Se si vuole dare spazio ai nuovi,
bisogna trovare il modo di cacciare chi occupa, immeritatamente,
una cattedra.
Entrambi gli schieramenti, una volta arrivati al governo,
hanno operato dei tagli: ne deduco che la scuola costa
troppo. Se, come ci viene ripetuto da anni, “il sapere è il
petrolio del III millennio”, esiste un “troppo”?
As: Secondo me si fa troppo allarmismo su delle razionalizzazioni
di spesa che si sono rese necessarie per fare
fronte alla crisi.
Uds: “Razionalizzazione” implicherebbe un taglio selettivo,
non indiscriminato come è stato fatto…
As: Non mi sembra ci siano stati cataclismi irreparabili: i
tagli sono stati presi a pretesto dai sindacati e dai professori
stessi per una mobilitazione squisitamente politica.
Uds: Mi viene da sorridere quando sento che un taglio
è un’occasione di razionalizzazione o, peggio, che bisogna
adattarsi perché non ci sono risorse: lo Stato ha da
poco speso la bellezza di 14 miliardi di euro per acquistare
260 cacciabombardieri e altri 5 per ingraziarsi un
dittatore come Gheddafi.
Ac: In teoria non esiste una spesa troppo alta per il futuro
del Paese. D’altro canto, però, la realtà evidente è quella
di una coperta troppo corta. Il problema è tra l’altro che
i soldi spesso vengono spesi male, sia a livello generale
(penso agli sprechi degli enti locali) che poi in particolare
nel settore della scuola. Se però all’opera di riduzione del
personale si accompagna un rinnovamento delle strutture,
un miglioramento dell’offerta formativa, un investimento
educativo, allora questa “razionalizzazione” sia la benvenuta.
Se i tagli sul personale fossero un gioco “a somma
zero” (risparmio sul personale e reinvesto questa cifra
nella scuola) sarebbero razionalizzazioni. Altrimenti chiamiamoli
tagli.
A proposito di stipendi: si può pretendere un insegnamento
di qualità da un docente sottopagato? Sarebbe uno
scandalo pagare di più i docenti migliori?
Uds: Inserire discriminazioni retributive fra i docenti inserirebbe
un altro capitolo di mercimonio nel mondo dell’istruzione.
È vero che gli stipendi dei professori sono
molto bassi, ma non credo alle ripercussioni negative
sulla qualità dell’insegnamento.
Sì, ma una professione poco redditizia verrà evitata da
chiunque sia abbastanza qualificato da trovarne altre,
esclusi ovviamente i nobili “missionari”.
Uds: Prima di preoccuparci dell’appetibilità della professione
docente vanno riqualificate le retribuzioni di chi già
insegna.
As: Oggi gli stipendi sono uguali per tutti, ma non tutti gli
insegnanti sono uguali: perché non pagare meglio chi è
più bravo?
La più grande riforma dell’istruzione negli ultimi anni è
stata l’autonomia scolastica. Il risultato è però abbastanza
strano, visto che i programmi sono rimasti nazionali;
inoltre, il sistema mette in competizione istituti
pubblici, che poi rilasceranno titoli assolutamente equivalenti.
Che senso ha?
Ac: Il giudizio sull’autonomia è certamente positivo, perché
permette agli istituti di venire incontro a bisogni specifici
del territorio. Purtroppo, quest’autonomia è solo parziale.
In più, ha scatenato pratiche più commerciali che
non didattiche, con insegnanti trasformati in piazzisti
sguinzagliati nelle scuole medie per raccattare più iscritti
possibile. Il principio però resta nobile e utile, perché
coinvolge anche gli studenti e i loro progetti nell’offerta
formativa.
As: Io sono “parzialmente favorevole” all’autonomia scolastica.
Un dirigente scolastico ha la possibilità di adattare
l’istituto alle necessità del territorio, gli studenti quella
di arricchire il proprio curriculum. Così, in grado di offrire
attività pomeridiane, la scuola diventa un punto di riferimento
per l’intera comunità. Mettere in competizione economica
gli istituti, però, fa temere degenerazioni di tipo
anglosassone, dove il bilancio viene prima della formazione
globale dello studente.
Sì, però almeno nei Paesi anglosassoni l’autonomia è
totale.
Ac: Cerchiamo però di andare al di là dei problemi che
sicuramente l’autonomia ha e guardiamo alla realtà positiva:
l’autonomia trasforma la scuola in una casa, un
luogo dove si va non perché deportati ma per viverlo, per
vedere un film al pomeriggio o frequentare un gruppo di
studio; trasforma gli edifici scolastici in luoghi diversi da
quello che comunemente si identifica con “scuola”. Anche
per fare cose a carattere puramente ludico.
Uds: Quando parliamo di autonomia, vedo un bellissimo
progetto, che ripensava la scuola in funzione del proprio
territorio, degenerato in un fallimento. Non è vero che gli
studenti hanno tutta questa voce in capitolo riguardo al
piano dell’offerta formativa; questo sarebbe vero in teoria,
ma il piano viene approvato nel primo Consiglio
d’Istituto dell’anno, che si riunisce ai primi di settembre
e, dunque, prima che gli studenti possano aver elaborato
dei loro progetti. Quand’anche li avessero preparati, le
delibere del Comitato studentesco, prima di approdare in
Consiglio d’Istituto, spesso vengono fatte passare per il
Collegio Docenti (diversamente da quanto previsto dalla
legge), in cui i ragazzi non sono rappresentati. E dire che
la legge istitutiva dell’autonomia, varata dall’allora ministro
Luigi Berlinguer, prevede per queste situazioni apposite
commissioni paritetiche, in modo da non penalizzare
la componente studentesca.
Quando fu presentato il tentativo di riforma del ministro
Moratti si parlava di “scuola-azienda”: i contrari dicevano
che era impossibile scegliere a quattordici anni se lavorare
o andare all’università. Esiste un’età giusta per questa scelta?
L’obbligo formativo, nato per contrastare il lavoro minorile
in un’Italia diversa da oggi, ha ancora un senso?
As: Quella di oggi mi sembra abbastanza congrua, in fin
dei conti.
Ac: Io andrei un po’ cauto a parlare di Italia “diversa”, di
“società del benessere”: facendolo dimentichiamo le
situazioni di marginalità e disagio sociale che, specie al
Sud, sono tutt’altro che debellate. Penso che una misura
come l’obbligo scolastico ribadisca la necessità di un
periodo della vita di una persona dedicata alla formazione.
Anzi, cercherei di legarlo al conseguimento di un titolo
di qualifica: alla fine del triennio di formazione professionale
o al diploma in un liceo.
Uds: Non dimentichiamoci che l’obbligo scolastico non è
pensato solo per combattere il lavoro nero, ma anche e
soprattutto per tenere i ragazzi fuori dal giro della criminalità:
la sua funzione sociale è tutt’altro che sorpassata.
Noi pensiamo a un sistema di obbligo scolastico adeguatamente
finanziato (perché alzare l’obbligo costa) e che
preveda un biennio unitario per tutti gli indirizzi, al termine
del quale scegliere la propria strada con cognizione
di causa e una base di partenza comune a tutti.
Beh, in realtà questo ruolo “unificatore” spetterebbe già
alla scuola media.
Uds: Hai colto nel segno. È per questo infatti che secondo
noi occorre una revisione dei cicli totale.
Ac: Più che andare a inserire un nuovo biennio unitario
cercherei di ridare qualità alla scuola media, che già
basterebbe.
La politica scolastica è il vostro pane quotidiano, ma la
partecipazione di massa ai momenti istituzionali di questa
politica – assemblee, comitati studenteschi – è merce
rara. Provocazione: e se venissero aboliti i Decreti
Delegati (il provvedimento del 1974 con cui furono istituite
le rappresentanze studentesche, ndr)?
Uds: Diciamo intanto che è in atto il tentativo di svuotarli,
che sortirebbe più o meno gli stessi risultati. Gli studenti
si stanno muovendo: ad esempio, per promuovere una
partecipazione di tutti, si stanno sperimentando le assemblee
d’istituto “separate” in base alla sezione o all’anno
di frequenza. Riducendo il numero di presenti, dovrebbe
essere meno difficile per un ragazzo piccolo o timido
prendere la parola.
As: Possiamo dire anche che questo è un trucco per aggirare
la carenza di locali adeguati alle assemblee…
Uds: Sicuramente. Comunque devo dire che, frequentando
il movimento dell’Onda dell’anno scorso, ho visto in
ampi settori di questo movimento un rifiuto della democrazia
rappresentativa, delle associazioni che ne fanno
parte e dei momenti istituzionali che la compongono in
una scuola, in primis l’assemblea d’istituto. Su questa disaffezione
gioca un ruolo determinante la sostanziale
impotenza dei rappresentanti in Consiglio d’Istituto (i professori
hanno un numero di voti doppio rispetto agli studenti)
e nei consigli di classe. Le assemblee di classe
sono ormai due ore al mese di vacanza istituzionalizzata,
i comitati studenteschi una riunione di casta impenetrabile.
I comitati sarebbero invece una risorsa immensa, perché
organo rappresentativo della componente più numerosa
di un istituto.
I Decreti furono varati per rispondere alle necessità di
una generazione molto attiva che chiedeva di partecipare
ai processi decisionali. La risposta a quella del
Duemila sarebbe la loro abrogazione. Anche perché,
oggi come oggi, gli studenti politicizzati rappresentano
una minoranza esigua che il più delle volte trascina o
indottrina gli altri.
Uds: Su questo ti do ragione. In particolare, la figura del rappresentante
d’Istituto si è affermata come figura carismatica,
da seguire acriticamente. Questa degenerazione finisce
per creare disaffezione e disinteresse verso i momenti decisionali,
in base alla convinzione – sbagliata – che sia il rappresentante
a dover decidere. Più che comprimere gli spazi,
anche solo in modo provocatorio, sarei per allargarli, per
dimostrare a tutti che possono partecipare e decidere. Un
esempio? Aumentiamo il numero di componenti del comitato
studentesco. Diminuiamo le deleghe e spingiamo a partecipare:
il comitato, così allargato, potrebbe fungere da
assemblea d’istituto permanente.
As: I Decreti Delegati sono una grande conquista.
Rischiano però di diventare un atto dovuto.
As: Intanto abbiamo l’obbligo di promuovere partecipazione,
non tanto in termini numerici ma qualitativi.
All’interno degli organi collegiali c’è la possibilità di
confrontarsi fra coetanei, fra compagni di scuola; magari
potremmo ridisegnare il giorno dell’assemblea,
sognando locali adeguati che permettano di trasformarla
in un momento di socialità a tutto campo, dal dibattito
al divertimento.
Ac: Secondo me bisogna partire da una presa di
coscienza: il sistema degli organi collegiali è in crisi e
ha bisogno di essere rivisto. Questa riforma, secondo
noi, deve passare attraverso due fasi: tornare a ribadire
la partecipazione come un valore fondamentale della
democrazia, riscoprendo così la politica nel senso più
nobile del termine, e riscoprire i luoghi della partecipazione,
rilanciando l’assemblea, i consigli di classe, i
comitati studenteschi. Questi ultimi, in particolare,
avrebbero bisogno secondo me di un regolamento
nazionale: non ci si può basare sulla condotta dei singoli
istituti. Abbiamo su di noi la responsabilità di risvegliare
una coscienza civile che, attenzione, non si è
addormentata solo negli studenti, ma in tutto il Paese.
La partecipazione politica si contagia.
Grande Agatino!! Belle risposte!! Mi fa un po’ pensare la pochezza nei contenuti degli altri intervistati. Non parlano (quasi) mai di scuola come spazio di vita, di relazioni, di formazione… piuttosto ho avuto la sensazione la vedano come una macchina burocratica (non ci sono le palestre, ci vuole meritocrazia… bla bla) senza evidenziare i valori di fondo (che dovrebbero essere cari alla scuola stessa e volti al bene degli studenti) su cui basarsi per fare scelte che migliorino il mondo dell’istruzione.
W il MSAC! Nel movimento vedo una idea di scuola una spanna sopra a quelle delle altre due associazioni intervistate, quindi come direbbe Saretta… YEAH!!