dove è finita la riforma? Da dove è partita?Viaggio nei meandri delle vicende ministeriali per capire a che punto stiamo…
di Saretta Marotta
apparso su “Ricerca” di maggio 2010
Di ministri che si sono attribuiti il merito di aver compiuto la “prima” riforma organica della scuola italiana dopo quella Gentile la storia della repubblica è piena. Ciascuno per suo conto ha preteso di essere iscritto nell’albo della memoria. Quando la vera riforma verrà speriamo che si faccia annunciare dalle trombe dell’Apocalisse… Al momento, di segni dei tempi non se ne vedono, i sigilli restano chiusi.
Cominciamo dal principio. I prologhi sono sempre istruttivi, in particolare nel caso delle leggi. Nel caso della nota “riforma Gelmini”, la chiave di tutto l’ingranaggio fu posta in un contesto che parla da solo: era l’estate 2008 quando veniva approvata la legge 133, la finanziaria, il cui art. 64 cambiava definitivamente faccia alla scuola italiana. Il Ministero dell’Economia soffiava la cattedra a quello in viale Trastevere, disponendo un programma di “razionalizzazione” della scuola italiana sotto tre punti di vista: delle strutture (la rete di scuole sul territorio), dell’organico (fu posto il “taglio” del 15% del personale ATA e di 80.000 docenti in tre anni) e degli ordinamenti. Al Ministro a capo del MIUR non restava che dover predisporre i regolamenti attuativi di tale articolo, il “piano programmatico”, appunto, cioè la cosiddetta “riforma”. Innanzitutto non facciamo confusioni: la “riforma” Gelmini non c’entra nulla con il brevissimo dpr 169, quello, per intenderci, che in soli dodici articoli, accostati un po’ alla Readers Digest, ha introdotto il voto in condotta, il maestro unico (per la verità sottinteso nelle conseguenze della finanziaria), la valutazione in cifre anche alle elementari e medie e la fatidica nuova materia “cittadinanza e costituzione” (due anni dopo lo sbandieramento di quella presunta innovazione, chiedete al prof. Luciano Corradini, vittima qualche tempo fa degli strali di Galli della Loggia, quanto questa materia abbia dovuto rassegnarsi ad un destino non diverso di quello della cugina educazione civica). Una “leggina” nata nell’estate 2008 proprio per consolare il detronizzato Ministro, dandole un progetto di legge tutto suo, dedicato integralmente alla scuola, proprio perché non si dicesse che il sistema formativo lo si cambiava solo con la calcolatrice. Ma questo ddl, nato il 1 agosto in forma molto più ampia, a fine mese, il 28, s’era dovuto accontentare dei ristretti panni di decreto, per la consueta prassi a cui purtroppo ci siamo abituati, per cui, pur di accelerare i processi legislativi, si finisce per fare gaffe incredibili, come quella recentemente avuta con un articolo del dl 134 “salva-precari” convertito in legge il 24 novembre 2009 e cassato il 27, che ci ha fatto gloriosamente entrare nel Guinness dei primati per essere durato solamente 48 ore…
Ma torniamo alla “riforma Tremonti”. Che più che altro è un “riordino”, nato di tutta fretta dal necessario rimpasto tra la riforma precedente targata Moratti, l’obbligo scolastico alzato a 16 anni da Fioroni e gli urgenti ed esigenti i limiti imposti dall’art. 64 della finanziaria.
Impossibile, dati i tempi, predisporre un piano organico, nessun “rapporto” o documentazione pedagogica (come invece fu il rapporto Bertagna per il Ministro Moratti, che pure ebbe modo di convocare nel 2001 gli “Stati Generali dell’Istruzione”) è sorta a sostenere il cambiamento e, purtroppo, a smentire l’accusa che si trattasse solo di una razionalizzazione economica.
Primo elemento: da 396 indirizzi sperimentali di licei e una sessantina tra diplomi di professionali e tecnici tutto è stato ricondotto a sei licei (artistico, classico, linguistico, musicale, scientifico e scienze umane), 2 settori per i tecnici (economico e tecnologico) e 2 per i professionali (servizi e industria-artigianato), con un numero limitato di indirizzi al proprio interno. Sembrerebbe un passo in avanti, necessario ed incontestabile. Peccato però che molte di queste sperimentazioni, consolidate da decenni e che hanno costituito il punto di forza della scuola dell’autonomia, siano eredità difficili con cui fare i conti. Ne sono una dimostrazione le miriadi di eccezioni, che purtroppo agiscono in senso tutt’altro che confermativo della regola e che stanno brulicando per l’Italia, tra istanze di professori, famiglie ed enti locali che riescono a salvare i propri istituti, vantando a buon diritto anche premi e riconoscimenti a livello europeo, e una meno nota eccezione, il “liceo della comunicazione”, che indisturbato continua la sua esistenza nelle scuole paritarie. Le regole o valgono per tutti o per ciascuno devono esserne chiari i criteri, altrimenti è ben difficile intravedere dove si concretizzi il risparmio e la tanto inseguita razionalizzazione.
Passiamo ai contenuti: i corsi sono organizzati, come stabilito dalla Moratti, in due bienni più anno finale. Il primo biennio Fioroni l’avrebbe voluto uguale o quasi uguale per tutti, nei variegati licei come nell’istruzione tecnica e professionale. Sarebbe questo il senso dell’obbligo scolastico elevato a 16 anni, per garantire una formazione “di base” più o meno omogenea a chiunque, attorno a quattro assi culturali e formativi essenziali: linguaggi, matematica, scienza e tecnologia e infine quello della storia e delle scienze sociali. Eppure la riforma Gelmini nel primo biennio dello scientifico (ma anche dell’artistico e del musicale) prevede solo 3 ore a settimana per una materia fondamentale come la storia, che tra l’altro le deve pure spartire con la forzatamente collega geografia e con la sempre dimenticata educazione civica. Praticamente un’ora e mezza, meno persino della ginnastica o quasi quanto la religione. Dei saperi sociali forti, quelli che connotano la cittadinanza, tipo diritto ed economia, in tutti i licei neanche l’ombra, a parte l’opzione economica del liceo delle scienze umane. Il latino, però, passa pure al linguistico! Va meglio ai tecnici e professionali, più rispettosi degli obiettivi formativi dell’obbligo scolastico e più omogenei: tra loro il sistema delle “passerelle” (ovvero la possibilità di cambiare percorso formativo) funziona a meraviglia, ma rispetto ai licei, così come tra i licei stessi, il muro è invalicabile.
Non si hanno notizie poi neanche della tanto attesa didattica laboratoriale. Difficile immaginarla, se in ogni regolamento si ripete la premurosa premessa “da attuarsi senza ulteriori oneri per lo Stato”. Per di più, la generalizzata riduzione delle ore ad una media di 27/30 a settimana non soltanto ha reso più ardua l’attuazione di approfondimenti, ma anche il normale andamento della didattica, che si ritrova con meno tempo ma in compenso più alunni per classe, rallentando pesantemente lo svolgimento di verifiche e lezioni. Sono soprattutto i professionali, passati da 40 a 30 ore settimanali, a scontare le conseguenze più dure di questa riforma all’insegna del risparmio. Scelte orarie e aumento della densità media delle nostre aule purtroppo dimostrano che più che gli obiettivi educativi degli studenti la priorità inseguita è quella di ridurre le cattedre. Del resto è stato sempre l’art. 64 della legge finanziaria a chiudere le SISS, bloccando in questo modo l’abilitazione all’insegnamento, per cui le graduatorie dei docenti restano blindate mentre un’intera classe di freschi e appassionati neolaureati, da due anni tagliati fuori, contempla vaste prospettive di ancora lunghe attese prima che venga indicato loro il modo di accedere alla docenza, persino da precari.
L’epilogo della saga, si stenta a crederci, è persino più inquietante. Secondo la legge finanziaria i “tagli” (e quindi anche il riordino della scuola) dovevano essere operativi già dal primo anno del triennio 2009/2012. Ma i frutti dei sofferti risparmi non potranno essere incassati prima del 2010/2011, quando i provvedimenti saranno operativi. Tra l’altro, solo per le prime classi. Su questo punto l’hanno avuta vinta le commissioni parlamentari ed il Consiglio di Stato che hanno condizionato il parere favorevole ai regolamenti al fatto che la riforma fosse operativa nel 2011 solo per le classi prime e non per il biennio, come invece si sarebbe voluto. Ciò rassicura i ragazzi che quest’anno hanno appena cominciato il proprio percorso scolastico, alle elementari come alle medie e alle superiori. Ma non rassicura affatto Tremonti che, a questo punto, a legge 133 approvata, naufragata l’ipotesi di risparmio attraverso la razionalizzazione strutturale della scuola, deve pur sempre trovare il modo di far quadrare i conti. E i fondi preventivati come ricavo nell’ambito dell’istruzione – risparmi che solo al 30% sarebbero stati reinvestiti nella scuola – bisogna in qualche modo che saltino fuori.
A questo scopo viene in aiuto l’eredità lasciata da Padoa-Schioppa, ovvero la cosiddetta “clausola di sicurezza”, in virtù della quale quanto non risparmiato col taglio degli organici previsto nella finanziaria viene recuperato riducendo i trasferimenti diretti dal Ministero alle istituzioni scolastiche, ovvero i fondi per l’autonomia (legge 440/97)
Per intenderci, sono i soldi che regolano il normale funzionamento delle scuola, dall’acquisto degli arredi (scrivanie, registri, lavagne) al piano dell’offerta formativa, dalle supplenze alle attività promosse da studenti e insegnanti. Per Padoa-Schioppa era un virtuoso principio per cui dall’incentivo si arrivava prima o poi ad accelerare il risparmio. Applicato alla legge 133 è un dichiarato assassinio.
Non si arrossisca allora di fronte allo tzunami di “proteste della carta igienica”, diffuse tra i genitori di tutta Italia, o all’acceso dibattito intorno alla questione se sia lecito e costituzionale nella scuola pubblica chiedere volontari “contributi” alle famiglie. E mentre i dirigenti scolastici hanno matasse sempre più difficili da sbrogliare (ammesso che resti quel po’ di lana), c’è chi si è inventato perfino le lotterie scolastiche. Nel trambusto, la verità è cristallina per tutti: questa sarà la vera riforma.