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La parola a chi non crede

Non togliete quel crocifisso

“L’Unità” – 22 marzo 1988

Il crocifisso non genera nessuna discriminazione. Tace. E’ l’immagine della rivoluzione cristiana, che ha sparso per il mondo l’idea di uguaglianza fra gli uomini fino ad allora assente.

Il crocifisso è simbolo del dolore umano. La corona di spine, i chiodi evocano le sue sofferenze. La croce che pensiamo alta in cima al monte, è il segno della solitudine nella morte. Non conosco altri segni che diano con tanta forza il senso del nostro umano destino. Il crocifisso fa parte della storia del mondo. Per i cattolici, Gesù Cristo è il figlio di Dio. Per i non cattolici, può essere semplicemente l’immagine di uno che è stato venduto, tradito, martoriato ed è morto sulla croce per amore di Dio e del prossimo.

Chi è ateo, cancella l’idea di Dio, ma conserva l’idea del prossimo.

Si dirà che molti sono stati venduti, traditi e martoriati per la propria fede, per il prossimo, per le generazioni future, e di loro sui muri delle scuole non c’è immagine. E’ vero, ma il crocifisso li rappresenta tutti.

Come mai li rappresenta tutti? Perché prima di Cristo nessuno aveva mai detto che gli uomini sono uguali e fratelli tutti, ricchi e poveri, credenti e non credenti, ebrei e non ebrei, neri e bianchi, e nessuno prima di lui aveva detto che nel centro della nostra esistenza dobbiamo situare la solidarietà tra gli uomini.

Gesù Cristo ha portato la croce. A tutti noi è accaduto di portare sulle spalle il peso di una grande sventura. A questa sventura diamo il nome di croce, anche se non siamo cattolici, perché troppo forte e da troppi secoli è impressa l’idea della croce nel nostro pensiero.

Alcune parole di Cristo, le pensiamo sempre, e possiamo essere laici, atei o quello che si vuole, ma fluttuano sempre nel nostro pensiero ugualmente.

Il crocifisso fa parte della storia del mondo.

Natalia Ginzburg

Se la scuola viene presidiata…

In alcune città (soprattutto le più grandi) avviene già da un po’ di tempo ma ogni volta che viene proposta questa iniziativa le proteste (degli studenti, principalmente) non mancano; stiamo parlando della proposta di alcune amministrazioni provinciali di far presidiare gli ingressi delle scuole superiori da pattuglie di poliziotti. L’ultima provincia che ha deciso di intraprendere questa iniziativa è stata la Provincia di Venezia che ha deciso di sposare la proposta della “neo” Presidente, Francesca Zacariotto (Lega Nord).

Da lunedì, davanti a 5 cittadelle scolastiche inizierà la sperimentazione di presidio degli ingressi delle scuole da parte di dieci pattuglie della Polizia Provinciale.

«Le macchine transiteranno a passo d’uomo davanti agli istituti per far capi re ai ragazzi che l’istituzione c’è ed è presente», ha spiegato l’as­sessore alla Polizia della Provincia di Venezia. Spaccio, bullismo e comportamento stradale irresponsabile dei ragazzi (in particolare con i motorini), nei primi giorni di sperimentazione il personale della polizia provinciale dovrà infatti osservare tutto questo per completare poi una mappatura delle zone controllate identificando le aree di maggiore rischio e i punti di maggiore afflusso de gli studenti.

Quindi lo scopo dell’iniziativa vorrebbe essere quello di contrastare i fenomeni di spaccio, bullismo e guida irresponsabile sulle strade ma, sinceramente, non sappiamo se realmente questa iniziativa (e tutte le altre portate avanti dalle diverse amministrazioni provinciali su tutto il territorio nazionale) porteranno il loro frutto: staremo a vedere ovviamente sperando in un esito positivo di tutte queste inziative!

Nel frattempo vi chiediamo di raccontarci esperienze simili: anche davanti alle vostre scuole c’è il presidio della polizia? a che scopo? siete d’accordo con queste iniziative? Si, no, perché? Attendiamo riscontri come sempre!

Ancora Bullismo

Questa mattina, leggendo i giornali, sono rimasto davvero sconcertato: ancora una volta un episodio di bullismo nelle scuole italiane… L’episodio è avvenuto nella stessa scuola (l’istituto torinese “Albe Steiner”) dove, nel 2006, fu filmata l’aggressione a un ragazzo disabile e che fece tanto scalpore… L’unica vera differenza è che in questo caso l’episodio si è verificato in una succursale dello stesso istituto.

Questa volta a farne le spese è stato un ragazzo tredicenne, marchiato a fuoco, da due compagni di classe quattordicenni, sul braccio destro con una penna sulla quale era stato messo un pezzo di ferro rovente a forma di “M”.

Il tredicenne, vittima dell’episodio, ha raccontato all’autorità giudiziaria, di essere stato avvicinato da due compagni durante la mattinata e questi, senza alcun motivo particolare, lo hanno marchiato procurandogli sul braccio ustioni di secondo grado.

Il ragazzino, secondo i medici, guarirà in 20 giorni ma molto probabilmente dovrà essere operato da un chirurgo plastico. I due bulli, a seguito della denuncia presentata dai genitori del ragazzino,  sono stati denunciati per lesioni aggravate alla procura dei minori.

Ora però mi domando: sono servite a qualcosa le iniziative del Ministro Fioroni e del Ministro Gelmini? Il primo ha reintrodotto la possibilità di bocciatura per ragazzi sospesi perché coinvolti in episodi di bullismo (iniziativa portata avanti proprio a seguito dell’aggressione al ragazzo disabile nella stessa scuola torinese), mentre la Gelmini ha reintrodotto il valore per il voto di condotta con annessa bocciatura nel caso in cui la valutazione in condotta sia inferiore a 6/10…

A mio modesto parere, queste iniziative non sono servite quasi a nulla… Che fare allora?

Se l’ora di religione diventa una vetrina

L’insegnamento della religione cattolica nelle scuole italiane già quest’estate era tornato nell’occhio del ciclone, con la famosa sentenza del TAR del Lazio con la quale sembrava impedirsi l’attribuzione del credito formativo da parte di questa materia per il conseguimento del titolo scolastico. Non solo, la sentenza sembrava anche voler impedire ai docenti di religione di prendere parte agli scrutini e ciò in opposizione a quanto stabilito dal Testo Unico in materia di istruzione che, nel 1994, attribuiva pari dignità agli insegnamenti di religione cattolica ed educazione fisica. Senza dimenticare il fatto che lo studente ha diritto di essere valutato in merito alla materia che ha liberamente scelto, sia essa l’ora di religione o l’attività alternativa. A far chiarezza comunque è intervenuto il regolamento sulla valutazione, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 19 agosto, che ha sottolineato che “la valutazione dell’insegnamento della religione cattolica resta disciplinata dall’articolo 309 del decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297” e anzi apre la possibilità di “eventuali modifiche” per l’attribuzione del voto numerico.

Qualche giorno fa invece la notizia della proposta Urso suscita un nuovo dibattito intorno all’insegnamento della religione cattolica. L’idea del viceministro alle attività produttive (!!!) di introdurre un’ora di “religione islamica” alternativa a quella “cattolica” ha condensato intorno a sé consensi e opposizioni. Al di là della questione di merito, in cui ci pare discutibile la motivazione secondo cui in questo modo si emanciperebbero i ragazzini musulmani dai “ghetti delle madrasse e delle scuole islamiche integraliste”, vorremmo ricordare alcuni punti.

1. La questione può suscitare un dibattito polarizzato intorno a “sì” e “no” solo in quanto si è totalmente travisato ormai il senso stesso dell’insegnamento della religione cattolica all’interno del sistema integrato di istruzione. Non si tratta infatti di un’ora di catechismo. Se così fosse, sarebbe abbastanza presuntuosa la proposta di Urso di sostituirsi a quelli che lui chiama “ghetti integralisti islamici”. Si tratta invece di una disciplina culturale nel quadro delle finalità della scuola, con la stessa esigenza di rigore e sistematicità delle altre discipline, volta ad approfondire quel fenomeno cattolico che che ha informato di sé per secoli la cultura dell’occidente e che costituisce il background della storia italiana passata ed attuale, perciò, come ha ricordato Benedetto XVI agli insegnanti IRC,”non richiede l’adesione di fede, ma assicura una riflessione argomentata sulle grandi domande di senso e sulla religione cattolica che offre i codici indispensabili per decodificare i segni della storia, dell’identità, dell’arte e della musica dell’Occidente e non solo”. Confondere questo insegnamento con il catechismo è invece prassi comune, confusione a cui sono soggetti non solo i polemisti, ma anche studenti, famiglie, e spesso, diciamocelo, anche gli stessi docenti a cui va attribuita parte della responsabilità del travisamento del programma IRC con quello che non è.

2. Proprio ieri l’altro è arrivata invece una proposta dall’assessore all’istruzione di Roma, Laura Marsilio, per l’affiancamento dell’ora di religione con un’altra SUPPLEMENTARE di storia delle religioni. Sembrerebbe una buona idea e un’ottima opportunità per gli studenti che ne facessero richiesta, anche se c’è giustamente da chiedersi a chi verrebbe affidato tale insegnamento. Se infatti tale attività dovesse tramutarsi in “vetrina” delle varie comunità religiose presenti sul territorio, si renderebbe un cattivo servizio alla scuola e agli studenti con una becera traduzione del sacrosanto diritto al pluralismo. Pluralismo non equivale infatti a bombardare gli studenti, sottoponendoli ad una battaglia ideologica che si combatte nel loro nome, ma che spesso li dimentica. Informazione e formazione sono cose diverse e occorre un personale docente qualificato, individuato dalla scuola anche all’interno delle comunità religiose se serve, ma che non trasformi quest’occasione in una sfilata di confessioni. Educare al dialogo interreligioso, conoscendo giustamente le varie tradizioni culturali e religiose con cui questa nostra Italia sta venendo a contatto, è un’altra cosa.

Tra l’altro pochi sanno che l’insegnamento IRC prevede già ampio spazio per la storia delle religioni e l’approfondimento del tema del dialogo interreligioso e interculturale. Ma del resto è difficile fidarsi di un docente designato dalla diocesi e non dalla scuola. Peccato che, effetti collaterali a parte, è certamente nel collegio docenti il più competente, da quando centocinquant’anni fa sono state abolite le facoltà teologiche dall’università di Stato. Ma questa è un’altra storia.

Quella vera, adesso, ce la stiamo giocando sulla pelle degli studenti. E sarebbe la buona volta che qualcuno si ricordasse che, ora islamica sì o no, sarebbe la loro formazione da mettere al centro, al di là delle esigenze di rappresentatività di ciascuno.

Saretta Marotta

Se questi sono gli studenti…

mi chiedo in percentuale per quanti studenti sia stato vero… e se non si stia gridando troppo all’allarme. Secondo la vostra esperienza, voi che la maturità l’avete fatta o avete amici e conoscenti che stanno attraversando questa prova, confermate quanto si afferma in questo articolo tratto da “La tecnica della scuola”?

io personalmente ci credo poco (cioè non penso che la maggioranza degli studenti abbia fatto ricorso a questi mezzucci), ma la parola sta a chi la maturità la vive davvero…

Se anche voi pensate che non sia così, per favore, diamo inizio alla riscossa studentesca, perchè non ci stiamo ad essere etichettati così. e se invece anche voi siete indignati da questi comportamenti perchè li avete vissuti, ecco lo spazio del vostro sfogo.

commentate!

Gli Esami dei “furbi”: soluzioni via web in tempo reale

di A.G.
Durante gli scritti i siti e blog studenteschi riempiti di richieste d’aiuto: “vi prego latino”, “matematica al più presto per favore”. Tracce e risposte on line in pochi minuti. Per il Miur tutto regolare. Ma gli esperti dicono che così non può andare avanti: si danneggiano i ragazzi.
Nel 2009 essere provetti informatici e ed esperti di tecnologie interattive è sicuramente un punto a favore: per riuscire nella vita come nel lavoro. Ma anche agli Esami di Stato. Dopo le avvisaglie riscontrate nelle ultime sessioni, quest’anno le prime due prove scritte cui hanno partecipato i 470.000 candidati al diploma secondario superiore hanno infatti avuto come protagonista la pubblicazione su internet di tracce e soluzioni. Fin qui nulla di strano: peccato che sia avvenuto a distanza di pochi minuti, o meglio solo pochi secondi, dall’apertura delle buste sempre rigorosamente sigillate in cera lacca.
Così per gli studenti più scaltri è stato un gioco da ragazzi reperire via sms da amici o familiari le informazioni più importanti ed ottenere un voto positivo. Certo, viale Trastevere anche quest’anno ha dettato le condizioni: durante le prove, come anche le lezioni, niente telefonini, né computer o ‘palmari’. Lo stesso vale per internet: tutte le aule informatiche delle scuole che ospitano le prove d’esame sarebbero dovute infatti essere rigorosamente chiuse a chiave. Di fatto però, almeno in alcune delle 13.000 Commissioni, le cose devono essere andate diversamente. Come è certo che una parte dei maturandi abbiano avuto accesso alla comunicazione a distanza, attraverso strumentazioni tecnologiche nascoste, approfittando evidentemente di una sorveglianza a maglie troppo larghe.
Per rendersi conto della situazione, che secondo qualcuno metterebbe anche a repentaglio la regolarità degli esami, bastava recarsi i giorni dei primi due scritti sui vari social network e i portali studenteschi e leggere le richieste di sostegno pratico: “vi prego latino”, “matematica al più presto per favore”, “aiuto non so fare niente, spero che la prof mi passi il compito”, sono solo alcune delle miriadi di richieste formulate dai candidati durante la realizzazione dei compiti. E come hanno inviato messaggi è praticamente scontato che buona parte degli stessi studenti abbiano ricevuto le risposte. La conclusione è che a molti di questi studenti internet, almeno per la formulazione delle prime due prove, abbia dato una mano indifferente.
La macchina organizzativa dei candidati più “furbastri” ha funzionato al meglio in occasione del secondo scritto. Appena otto minuti dopo l’apertura delle buste, avvenuta alle 8,30, i siti on line come skuola.net, e a seguire i social network, come Facebook, o i blog, come Tuttomatura, hanno proposto delle tracce perfettamente uguali (evidentemente fotografate o scannerizzate) a quelle proposte dagli esperti di viale Trastevere. Attorno alle 8,45, per gli studenti del Classico arrivava già la prima soluzione esatta: la traduzione di latino di un brano tratto dal De Officiis di Cicerone. Da lì a poco blog e portali giovanili si sarebbero “scatenati” anche per le altre tracce mettendo a disposizione di tutti le non facili soluzioni ai problemi di geometria e trigonometria proposte al liceo scientifico; e poi, man mano, temi rispondenti ai quesiti proposti a seconda dei diversi indirizzi.
Dal ministero dell’Istruzione si limitano a difendere il sistema tradizionale basato sulle prove cartacee (“la trasmissione delle tracce via internet alle scuole, quella sì che sarebbe un pericolo”) e a sottolineare che dopo l’apertura delle buste “la responsabilità è delle commissioni perché sono loro che vigilano in classe”. Del resto, fanno sapere sempre da viale Trastevere, “è impossibile blindare tutto e impedire totalmente che dalle scuole emerga qualche contenuto”.
Di diverso parere gli esperti. Secondo il pedagogista Benedetto Vertecchi “ormai questo esame è una farsa che peraltro serve a poco visto che chi vuole andare all’Università tra poco dovrà sostenere un altro test dove il voto della maturità non conta”. Delusa per la piega che hanno preso le prove conclusive della secondaria anche Marisa D’Alessio, psicologa dell’età evolutiva e docente alla Sapienza di Roma: “ormai in questo Paese – spiega D’Alessio – c’è la cultura dello spionaggio: del resto la società insegna ai giovani che chi vince è furbo. Ma chi ha messo su internet le tracce non ha fatto un buon servizio ai ragazzi, non li ha rispettati: i protagonisti dell’esame devono essere loro, non la Rete”. L’ultima bacchettata è per i genitori che si sono prestati ad inviare le riposte del web sui cellulari dei figli impegnati nelle prove: “devono lasciare in pace i figli – sostiene la psicologa – e responsabilizzarli invece di giustificare la ricerca dell’aiutino”.

C’è bisogno di una scuola…

di don Nicolò Tempesta

C’è bisogno di una scuola…

È ormai da giorni suonata la campanella che segna la fine delle lezioni (almeno per quest’anno scolastico) e per la scuola è tempo di bilanci. Il punto è proprio questo: la qualità della scuola costruisce una società di qualità domani. Essere uomini e donne di qualità. Ciò che la scuola  insegna e trasmette oggi, sappiate che la società lo ritroverà germogliato dopo. Se la scuola semina con larghezza, senza calcolo, ciò che è vero, giusto, amabile, puro, alto e profondo e che può durare anche per il domani, significa che ha a cuore il bene di tutti. Si riscopre ancora una volta primaria nel suo ruolo educativo: la scuola quando educa è sempre “scuola primaria”, una scuola di qualità.

La triste e desolante vicenda di questi giorni nella provincia di Roma che ha votato una interpellanza per dotare le scuole medie superiori di distributori di preservativi, collocati tra le bibite e le merendine, ci deve indurre a chiedere: cara scuola, che ne è del tuo ruolo educativo? Siamo tuttavia convinti che, a dispetto degli scenari catastrofici e di una politica di restrizione finanziaria che ha toccato i settori del servizio pubblico, in particolare la scuola, la fatica e la bellezza di educare, ci permette di guardare ancora una volta al nostro sistema di istruzione come ad un punto di riferimento importante per ragazzi, giovani e famiglie.

C’è bisogno di una scuola che non solo insegni a fare, ma ancor di più educhi a essere. La scuola, nel suo ruolo educativo si riscopra una comunità educante che aiuti a fare unità nella persona. Una scuola che giorno per giorno, prenda per mano i ragazzi aiutandoli a scoprire la bellezza di una vita che diventa dono. Innanzitutto lo sviluppo e la crescita (anche culturale) dei nostri studenti, non potrebbe realizzarsi senza il previo riconoscimento di quei bisogni fondamentali che speso incrociano la vita di relazione dei nostri ragazzi. Primo fra tutti il bisogno di appartenenza e di amore che viene a spezzare l’isolamento e la sensazione di vuoto interiore dei giovani studenti.

C’è bisogno quindi di una scuola che si riappropri essenzialmente della sua dimensione educativa. Potrebbe significare oggi, educare la coscienza a scegliere il  bene per sé e per la comunità dando all’educazione valenza etica; qui vengono chiamate in causa – concretamente – tutte le agenzie educative che dovrebbero parlare tra di loro lo stesso linguaggio e intendersi; penso innanzitutto alla famiglia e alla parrocchia.

C’è bisogno di una scuola che educhi la coscienza, sempre più oggi “scatola vuota”, frutto di quel relativismo etico dominante, che ci priva di quei contenuti veritativi che aiutano i nostri ragazzi a crescere. Il deficit educativo qui è deficit di verità morale e espressioni come “mi regolo in coscienza”, “faccio ciò che mi dice la mia coscienza” – soprattutto in campo di educazione sessuale – divengono segno dell’autoreferenzialità di un soggetto che ha come punto di riferimento solo se stesso. In un acuto e recente saggio di Umberto Galimberti leggo che i giovani stanno male “perché un ospite inquietante, il nichilismo, si aggira tra loro, penetra nei loro sentimenti, confonde i loro pensieri, cancella prospettive e orizzonti, fiacca la loro anima, intristisce le passioni rendendole esangui” (L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Milano 2007, p.11). Tutti auspichiamo a scola un ritorno a quella che i greci chiamavano “l’arte del vivere che, fondamentalmente, consiste nel riconoscere le proprie capacità – e sui banchi se ne scoprono tante! –  per vederle fiorire secondo misura.

C’è bisogno di una scuola che domandi agli insegnanti di essere bravi formatori, capaci di intessere un proficuo rapporto di dialogo e reciproca fiducia che, essenzialmente, è una relazione tra persone caratterizzate da dono e rispetto reciproco. E se l’educazione è offrire alle giovani generazioni il bene più prezioso, quello che corrisponde alla loro autentica realizzazione, la scuola, realizzerà compiutamente la sua funzione educante se aiuterà i nostri giovani a “fare discernimento” (cf. Ts 5,21-22) per cogliere il bene nella vita e della vita.

C’è bisogno di una scuola che inizi a educare all’amore responsabile, che tenga conto non tanto “di vasi da riempire – ricordava già Quintiliano (35-95 d.C.) – ma di fiaccole da accendere”. Una scuola che educhi anche al sacrificio ma che faccia innamorare i nostri ragazzi di ideali alti per i quali vale la pena spendersi e che non installi semplicemente distributori di preservativi e pensare così di risolvere il “problema” dell’educazione sessuale deresponsabilizzando famiglie, studenti e docenti e lasciando soli i ragazzi nel far west delle scelte facili, appaganti e banali.

Desidero ricordare lo scrittore Daniel Pennac che nel “Diario di scuola”, alla fine del percorso di riflessione sulla sua esperienza scolastica a chi gli chiede il segreto per rinnovare l’insegnamento e rivitalizzare la relazione educativa e quali siano le strategie didattiche da intraprendere, dietro l’insistenza dell’interlocutore dice, che lo strumento fondamentale attraverso cui possiamo rinnovare l’educazione è semplicemente l’amore. L’amore per le persone concrete – i volti, le storie, i nomi che incontriamo a scuola – può “tirare fuori il meglio” che ognuno di noi si porta dentro. Non è forse questa l’origine etimologica del verbo “e-ducare”?

Nuove classi di concorso per i docenti

Editoriale di “libed.news41”
LA CLASSE DEL DOCENTE

Le classi di concorso, come sappiamo, fanno parte del percorso che introduce il neolaureato che ha scelto la professione docente nell’ambito dell’insegnamento stesso.

Il DM 30 gennaio 1998 n. 39 (Ministro Berlinguer) stabiliva la corrispondenza tra materie di insegnamento e classi di concorso secondo determinati criteri. Erano fissati gli insegnamenti compresi nelle classi di concorso stesse e, inoltre, per ciascuna classe di concorso, i titoli di studio validi per l’ammissione ai concorsi a cattedre.

In sostanza, nell’ordinamento vigente fino ad ora, una laurea consente l’accesso a più classi di concorso e la classe di concorso indica un insieme di materie che possono essere insegnate da un docente.

Quindi la classe di concorso ha fin qui definito una particolare cattedra di insegnamento, in quanto un docente insegna più materie, ma tutte appartenenti alla stessa classe di insegnamento.

Ancora, la classe di concorso ha indicato una particolare graduatoria, in quanto tutte le graduatorie sono state divise in base alle classi di concorso.

Il Ministro Gelmini con il D.M n. 37 del 26 marzo 2009 ha composto l’ultimo tassello previsto dalla riforma del I ciclo decretando che, relativamente alla scuola secondaria di primo grado, dal 2009/2010 le classi di concorso a cattedre di cui al D.M. n. 39/1998 siano trasformate in nuove classi di abilitazione.

Il risultato ottenuto è che le nuove appaiono in qualche modo più comprensive delle “vecchie” classi di concorso: per esempio, la 45/A Lingua straniera diviene 45/A – Lingua inglese e seconda lingua straniera; la 33/A Educazione tecnica nella scuola media diviene 33/A – Tecnologia. Un altro esempio ancora: la 59/A Scienze matematiche, chimiche, fisiche e naturali nella scuola media diventa 59/A – Matematica e scienze nella scuola secondaria di I grado.

La conseguenza, come avveniva con il vecchio sistema, è che alla luce delle nuove classi di abilitazione all’insegnamento viene ridefinita la composizione delle cattedre che a sua volta è funzionale ad una razionalizzazione dei piani di studio e dei quadri orario. Stando alle anticipazioni che si hanno, analoga operazione pare stia avvenendo nell’avviata ridefinizione delle classi di concorso delle superiori.

Insomma, sembrerebbe essere stata avviata una trasformazione strisciante del rapporto tra competenze disciplinari del docente e insegnamenti che a nostro parere dovrebbe essere valutato attentamente e portato il più possibile allo stato di riflessione pubblica e consapevole.

Quello che intendiamo sostenere, come contributo alla discussione su questo punto e nell’ottica di una ridefinizione di tutto il sistema delle classi di concorso, è che la comprensibile necessità di utilizzazione più razionale del personale docente qualificato, anche nel senso della maggiore mobilità professionale, deve essere ancorata alle esigenze della scuola e non solo a quelle dell’economia.

In altri termini, è inevitabile supporre che piani di studio e percorsi formativi più essenziali (e questo vale per tutti gli ordini di scuola) conducano ad un accorpamento delle vecchie classi di concorso in nuove classi di concorso e di abilitazione.

Il problema sarà poi quello di decidere come all’accorpamento delle abilitazioni debba corrispondere una eguale quantità di competenze (non generiche) nella persona del docente, che non potrà essere pensato come tuttologo.

Si aprono in tal senso prospettive che attengono alla figura professionale del docente, alla sua soggettività culturale e allo sviluppo della carriera. Infatti, non solo la preparazione disciplinare che precede l’abilitazione dovrà essere messa alla prova nella esperienza di contatto diretto con la scuola (tirocinio), ma la stessa azione di riconversione da una classe di abilitazione ad un’altra nuova e più comprensiva, ove avvenisse, dovrà tenere conto del portfolio maturato dal docente e non essere una semplice operazione burocratica.

Per le info sulle nuove classi di insegnamento, vedi approfondimento (con tabelle allegate) della “Tecnica della scuola”

Gelmini contestata

Le vacanze sono iniziate e molti si stanno già godendo il meritato riposo in modo da arrivare carichi al campo nazionale….Oppure studiano come me in attesa della maturità! Intanto però la scuola italiana continua ad essere al centro di novità e allo stesso tempo di numerose polemiche…

In settimana è stato approvato dal CdM la riforma dei Licei, un mese fa quella degli istituti tecnici. E ancora si contina a protestare. Proteste che non sono nello stile proposto dal movimento; sapete bene come la pensa il msac in merito alle forme di protesta e di certo quello che è successo oggi, a Milano, non è una forma condivisibile.

Sorge quindi spontanea una domanda: cosa si deve fare per far comprendere che il metodo da perseguire è quello del dialogo, del confronto e non quello dello scontro; che, per utilizzare uno degli slogan della Mo.Ca., bisogna passare, ancora una volta, dalla protesta alla proposta.

E invece questo, purtroppo, non accade: abbiamo visto, infatti, anche oggi in Tv  l’ennesima contestazione di alcuni genitori, docenti e studenti nei confronti della Gelmini, che ha constretto gli organizzatori della tavola rotonda ad annullare l’incontro.

Lasciamo qui di seguito il link alla pagina di Corriere.it dove potete vedere il video della contestazione e farvi una vostra idea; Inutile ripetere l’invito, anche questa volta, a lasciare commenti e impressioni!

Video contestazione Gelmini

Cittadini di sana e robusta Costituzione

A settembre del prossimo anno i nostri Pierini si ritroveranno una novità tra le materie del proprio curriculum scolastico. Si chiama Cittadinanza e Costituzione e sarà studiata dalla scuola dell’infanzia alla scuola primaria, dalle medie alle superiori. Annunciata già a fine ottobre 2008 con la legge 169 che l’ha introdotta nei programmi di tutte le scuole di ogni ordine e grado, da ieri mattina (4 marzo) la nuova materia scolastica ha “linee d’indirizzo” ben delimitate per ciascun percorso scolastico, linee che, pur nel rispetto del principio dell’autonomia didattica delle scuole, ne determinano dettagliatamente i contenuti e gli obiettivi di apprendimento. Presentandola a Palazzo Chigi, alla presenza del Procuratore nazionale antimafia Piero Grasso, il Comandante generale dell’Arma dei Carabinieri, ed don Luigi Ciotti, presidente di “Libera”, il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini ha assicurato: “non sarà la vecchia ora di Educazione civica, ma un’ora di educazione alla cittadinanza, per insegnare ai ragazzi i valori e i principi contenuti nella nostra Costituzione“.

Una dichiarazione d’intenti che suona più come un buon auspicio piuttosto che come esauriente spiegazione, ma per orientarsi meglio viene in soccorso l’atteso documento d’indirizzo, presentato per l’appunto il 4 marzo.

Innanzitutto “verrà utilizzato il monte ore dell’orario scolastico, senza aggiunte” – ha detto la Gelmini – “quello che si chiede agli insegnanti è uno sforzo congiunto, una sinergia per offrire l’educazione ai principi costituzionali”. 33 ore annuali dunque, un’ora a settimana, che saranno ricavate dall’attuale orario delle aree storico-geografica per il primo ciclo e storico-sociale per medie e superiori. Il fatto che non si tratti di una riedizione spolverata dalla vecchia educazione civica o dell’interdisciplinare e trasversale “educazione alla convivenza civile” introdotta tra gli OSA (obiettivi scolastici di apprendimento) della Moratti, dovrebbe assicurarlo il fatto che la nuova materia avrà anche una valutazione autonoma e specifica.

Il che vuol dire, da parte degli studenti, che Citt. e Cost. fa media e va studiata al pari delle altre materie, mentre da parte dei docenti il suo insegnamento non è più lasciato alla loro discrezionalità. Una buona differenza rispetto al passato, dunque, che può in qualche modo farci ben sperare.

Per Luciano Corradini, pedagogista e presidente della commissione che ha elaborato le linee guida della nuova materia, è proprio perché la vecchia educazione civica era ininfluente sul profitto degli studenti, che essa era rapidamente scivolata nella marginalità: “Finalmente viene previsto uno specifico tempo scuola per consentire ad un docente, sia egli di storia, di filosofia o di diritto, di sviluppare con perizia didattica l’insegnamento e l’apprendimento della costituzione come disciplina autonoma e di trovare intese con i colleghi, perché ciascuno concorra, come educatore e come titolare della sua disciplina, a quell’educazione civica, che abbiamo chiamato ‘educazione alla cittadinanza e cultura costituzionale’”. Attraverso insomma lo strumento del tempo dedicato e della valutazione distinta, così come perseguito in altri paesi come la Spagna, si dà rilevanza sociale a questo specifico sapere culturale. E gli effetti saranno valutabili alla fine del prossimo anno scolastico.

Il secondo sostantivo che denomina la nuova materia di studio determina la vera innovazione del provvedimento. Raccogliendo gli innumerevoli appelli del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, lo studio della Costituzione entra nelle scuole dal portone principale, saltando l’iter delle tradizionali finestre tra un buco e l’altro nel programma di tal o tal altra disciplina. Quest’ingresso lo compie anche attraverso l’apertura delle scuole a “testimoni”: dalle forze di polizia ai carabinieri, alle associazioni ambientaliste e antimafia, perché ci sarà spazio anche per l’educazione ambientale, ai sani stili di vita e ad una corretta alimentazione.

Dal decreto Moro del 1958 che introdusse per la prima volta l’insegnamento dell’educazione civica, siamo forse ad un punto di svolta che non può non farci che ben sperare per i nostri studenti, i nostri Pierini. In ultima analisi, anche i decreti delegati del ’74, quelli che introdussero forme di partecipazione democratica alla vita delle scuole (gli Organi collegiali, per intenderci), così come lo Statuto delle studentesse e degli studenti, sono da inserire in questa storia di nobili tentativi e buoni propositi, e la nuova disciplina tende a rilanciare, tra le altre cose, quali la valutazione del comportamento non solo in chiave sanzionatoria, ma anche come mezzo per premiare l’apprendimento del “convivere civile”, proprio questo strumento partecipativo, come pure il ruolo delle associazioni studentesche, mettendo in evidenza come la scuola non possa vivere senza la partecipazione attiva e propositiva di tutti i soggetti che la compongono, compresa la componente degli studenti. “L’esercizio della democrazia, infatti, – recita il documento d’indirizzo preparato dalla commissione Corradini – è un diritto-dovere che va appreso e praticato giorno per giorno fin dalla più giovane età”. “La scuola – continua il documento – è la palestra ideale di questa pratica, quando sviluppa nella persona che apprende la consapevolezza dei propri percorsi formativi e favorisce e sostiene un processo relazionale finalizzato alla crescita globale, nella convinzione che le ragazze e i ragazzi, attraverso l’assunzione di responsabilità partecipative, si educhino al confronto ed imparino le regole fondamentali del vivere sociale.”

Ai posteri, ovvero gli studenti del prossimo anno, di ogni ordine di studi, valutare se si è fatto onore alle buone intenzioni e se la scommessa sarà stata finalmente vinta.

Che fine ha fatto la “riforma”?

Rimandati al 2010. Sarebbe questa la fine ingloriosa degli “urgenti provvedimenti in materia di istruzione” che tanto hanno fatto scaldare gli animi e le piazze in questo lunghissimo autunno di mobilitazione. La riforma degli ordinamenti delle superiori sarebbe posticipata all’anno scolastico 2010/2011, mentre il tanto discusso “maestro unico” o maestro prevalente a 24 ore settimanali sarebbe una scelta lasciata alla discrezione delle famiglie. Ma allora riforma sì o riforma no? C’è o non c’è questo tanto conclamato passo indietro? Vediamo di fare chiarezza…

Cominciamo dal dl 137, quello approvato a fine ottobre, quello col voto di condotta, maestro unico e cittadinanza e costituzione, per capirci. Nato il 1 agosto 2008, nell’amniotico calderone di disegno di legge dentro al quale galleggiavano provvedimenti disparati, dai debiti formativi alla formazione degli insegnanti, dalla carta dello studente al monte di 33 ore (poi cassato) per la “nuova” materia Cittadinanza e costituzione, il dl 137, presentato il 28 agosto, ereditava le contraddizioni dovute ai tagli del decreto fiscale 112 (poi diventato legge 133) e veniva accolto dalla comunità studentesca con la massima agitazione, allibita dalla reintroduzione della valutazione del comportamento e dalla votazione numerica per elementari e medie. Il dl, però, non conteneva ancora il famigerato art. 4, quello del “maestro unico”, che è inspiegabilmente apparso nell’arco del brevissimo tragitto (meno di un paio di giorni) intercorso tra la presentazione al tavolo del Consiglio dei ministri e la firma alla scrivania del Presidente Napolitano, il 1 settembre. È stato quell’articolo a toccare le delicatissime terminazioni nervose di interessi corporativi e di sindacato che da quel momento hanno scatenato orde di insegnanti scesi in piazza a protestare fianco a fianco con gli studenti, prima col lutto al braccio, poi con le parate sotto ai balconi del ministero. Solo allora la protesta ha cominciato a far rumore.

Eppure già in giugno, da quel contestatissimo articolo 64 del decreto di programmazione fiscale triennale, si era cominciata ad intendere l’antifona che avrebbe accompagnato la marcia decisa ed inesorabile dell’intera legislatura. L’art. 64 della legge 133, ovvero la vera “riforma” della scuola. Perché sarà pur vero che non c’è nessun piano organico di ristrutturazione del sistema scolastico, che non c’è nessun “rapporto” (come invece per la Moratti fu il rapporto Bertagna) o documentazione pedagogica che sostenga quelli che restano provvedimenti singoli e slegati rispetto ad un unico articolato legislativo che continua palesemente a mancare, ma quell’unico articolo della legge 133, e soprattutto il “piano di programmazione della scuola” che esso ha implicato, la scuola la cambiano eccome. Del resto è difficile che l’istituzione scolastica resti la stessa quando si annuncia il taglio di 130.000 organici (tra docenti e ATA), il riordino (leggi “razionalizzazione”) amministrativo e strutturale della rete scolastica e la riorganizzazione (leggi “taglio dell’orario settimanale”) dei curricula e degli ordinamenti didattici. Tre ambiti di intervento che si traducono semplicemente in 1)più alunni per classe -in MEDIA 30!- 2)accorpamento delle classi di concorso e quindi delle cattedre 3)chiusura –speriamo solo amministrativa – delle scuole con meno di 500 studenti (300 per le zone di montagna)

Eppure come sempre il cambiamento lo determinano non gli articolati legislativi quanto i regolamenti di attuazione. Ed erano proprio quelli ad essere attesi in questi giorni, quando tutta la comunità scolastica si chiedeva che ne sarebbe stato in traduzione pratica di quanto previsto dalla “riforma”. Se lo sono chiesto soprattutto le regioni che hanno dato battaglia accanita al governo, dopo quel dl 154 che le costringeva ad approntare, entro il 30 novembre di ogni anno (a partire già dal 2008) il piano di riorganizzazione delle proprie strutture scolastiche, pena il commissariamento della faccenda ad uno speciale incaricato inviato dal governo centrale… a spese delle regioni, naturalmente. Gli enti locali non hanno voluto saperne e alla fine il braccio di ferro si è concluso con il rinvio della riorganizzazione della rete scolastica al 2010-2011. Sconfitta dunque per la Gelmini, ma soprattutto per il piano di risparmio di Tremonti che, a questo punto, a legge 133 approvata, naufragata l’ipotesi di risparmio attraverso la razionalizzazione strutturale della scuola, deve pur sempre trovare il modo di far quadrare i conti. E i fondi preventivati come risparmio nell’ambito dell’istruzione – risparmi che solo al 30% sarebbero stati reinvestiti nella scuola – bisogna in qualche modo farli saltar fuori.

A questo scopo viene in aiuto l’eredità lasciata da Padoa-Schioppa, ovvero la cosiddetta “clausola di sicurezza”, in virtù della quale quanto non risparmiato col taglio degli organici previsto nella finanziaria viene recuperato riducendo i trasferimenti diretti dal Ministero alle istituzioni scolastiche, ovvero i fondi per l’autonomia, i fondi della legge 440.

Per intenderci, sono i soldi che regolano il normale funzionamento delle scuola, dall’acquisto degli arredi (scrivanie, registri, lavagne) al piano dell’offerta formativa, dalle supplenze alle attività promosse da studenti e insegnanti. Significa che se in una casa ci sono troppi domestici, siccome ci vuole tempo a riformulare i contratti, intanto si comincia a tagliare i viveri. Per Padoa-Schioppa era un virtuoso principio per cui dallo stimolo si arrivava ad accelerare il risparmio. Applicato alla legge 133 è un dichiarato assassinio.

E mentre si delinea questo scenario finanziario per le scuole affidate alle cure e alle coliti dei dirigenti scolastici, ci si chiede in che modo possa essere applicato il dl 137, la cui approvazione presso Camera e Senato è stata ottenuta, è proprio il caso di dirlo, sub conditionem. Le “condizioni” imposte dalle commissioni Cultura del Parlamento hanno imposto, ad esempio, che il tempo pieno nella scuola primaria sia in ogni caso assicurato, che per le elementari le famiglie abbiano la possibilità di scelta tra modelli a 24 ore, a 27 o 30, (quindi il maestro “unico” diventa scelta facoltativa), che gli insegnanti di sostegno siano in numero di 1 ogni 2 disabili, eccetera. Anche in questo caso si pone il problema di quanto queste ragionevoli garanzie siano conciliabili con i tagli previsti dalla finanziaria e che il “piano programmatico” avrebbe dovuto attuare. Se non si taglia sugli insegnanti e sulle ore d’insegnamento, dove si praticherebbe il risparmio? la risposta è sempre nella legge 440.

Intanto oggi [18 dicembre] il ministro ha trionfalmente annunciato la “prima riforma organica di tutti i cicli (elementari, medie, superiori) dai tempi della riforma Gentile del 1923”. Riforma appunto che partirà dal 2010 e che vedrà la riorganizzazione (o piuttosto “riductio ad unum”) degli indirizzi di studio, dei curricula, dei piani orari, il passaggio dalle ore di 50 minuti a quelle di 60’, più inglese e matematica ai licei, riduzione a 32 ore da 40 dell’offerta dei professionali, molti dei quali smembrati negli indirizzi affini degli istituti tecnici, veri e propri “premi di produttività” (quali i meccanismi di valutazione?) per incentivare il merito degli insegnanti…

Sono provvedimenti che costituiscono l’applicazione di quanto stabilito nel “piano programmatico” per la scuola, ma l’impressione è che il “piano” resti una riforma a metà. Non soltanto sul piano pedagogico (manca totalmente una organica riflessione sui “saperi”), ma anche nelle intenzioni dello stesso governo e del ministro. La questione delle cattedre è infatti essenziale per la definizione dei nuovi quadri orari e finché tale questione non sarà chiarita, l’intera applicazione (appunto posticipata di due anni) della sbandierata “riforma” dell’istruzione pare ancora molto nebulosa.

In mezzo a questa linea d’ombra si delineano allora solo le vittime al momento certe della mannaia del risparmio, i soggetti che, nel gran polverone dell’Onda, sono rimasti difesi da nessuno: il personale ATA, il cui taglio del 35% è una delle poche certezze della legge 133, e l’autonomia della scuola. Gira e rigira, in questo senso la riforma è già adesso.

(scritto per “Argomenti 2000“)